Data: 31/03/2003 - Anno: 9 - Numero: 1 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
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AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)
Era venuto al mondo in mezzo al carbone. S’era cresciuto, sempre lurido e nero, tra una carbonaia e l’altra, da una balza all’altra, al seguito del padre, del nonno, dei numerosi zii, tutti carbonai, che avevano tanto bisogno di un garzone-apprendista, che fosse proprio, che fosse servizievole, che fosse temprato alla vita e alle leggi della montagna. E Cosimo prometteva bene. Sua madre lo aveva partorito tra i boschi, sotto un secolare faggio, con l’assistente dell’ormai novantenne Marantona, che aveva conosciuto anche Musolino, quando, scoperto il tradimento del cognato, e lasciatolo ferito e moribondo al quadrivio dell’Impiccato, dovette rifugiarsi più a nord per sfuggire ai Carabinieri di Locri che lo cercavano in ogni anfratto. Non c’era scuola in mezzo alla montagna, per cui il piccolo carbonaio non ebbe maestri, né libri, né penna, né calamaio. Non c’era chiesa né prete a Vallenera, per cui il piccolo Cosimo non imparò a pregare. E il nome di Dio lo sentiva soltanto nelle bestemmie del padre, degli zii, degli altri carbonai. Ogni due o tre mesi arrivavano da un mondo lontano carovane di muli per prelevare il carbone, già insaccato dalle donne accanto alle carbonaie, e Cosimo aveva così scarni contatti con il mondo che comunque esisteva oltre le montagne. Un giorno, lui era ancora un ragazzo, arrivarono fin lassù dei professori tedeschi, per conoscere e scrivere -così lui sentiva dire- la vita degli uomini di montagna, in un angolo perduto della Calabria. Era il suo angolo, egli ne era quasi orgoglioso. Aveva qualche difficoltà a capirli, quando lo interrogavano, ma era felice di poter dare anche lui a quella gente sconosciuta le informazioni che chiedevano, sul sapone, sulle forchette, sui piatti, sulle sorgenti e sui fiumi, sul gabinetto, sulle preghiere, sui giochi dei bambini, sugli amici. Un’altra volta arrivarono a dorso d’asino due forestieri, un professore e un assistente, per raccogliere inutili erbe e per fare delle strane domande sui nomi delle piante e degli oggetti che usavano i carbonai e i contadini. D’inverno, quando la neve copriva la montagna, o le piogge duravano a lungo, si tornava a casa, sia pure per brevi periodi. Cosimo, allora, con la guida di nonno Damiano, costretto a casa perché vecchio e malato, imparava a costruire e impagliare sedie, con il biodo di cui abbondava la valle. Qualche volta gli era concesso il privilegio di seguire i giovani nelle battute di caccia al cinghiale, o alla posta alle anatre di passaggio, o al tiro notturno ai ghiri saltellanti tra i castagni. Andrea, il fratello maggiore, cacciatore come ce n’era pochi altri nella zona, gli affidava talvolta il fucile, e gli consentiva anche di sparare, gli insegnava anzi a sparare, a bersaglio fermo e in movimento. Quando c’era scarsezza di selvaggina, si divertivano a sparare al bersaglio con la pistola, ché ognuno ne aveva almeno una in tasca. E Cosimo usava ormai l’arma corta con maestria: a venti metri centrava al primo colpo una foglia di faggio. E a quindici anni comprò finalmente la sua pistola, e ne fu felice. Era un’esigenza che avvertiva da tempo, giacché non si può vivere tra le montagne senza un’arma con cui difendersi all’occorrenza. Intanto cresceva anche Assunta, la florida vicina di casa che Cosimo incontrava sempre tra i boschi perché era una delle donne che suo nonno e suo padre chiamavano per insaccare il carbone, dopo averlo selezionato a dovere per soddisfare nel modo migliore le esigenze della clientela. Spostandosi tra i viottoli capitava spesso che gli occhi di lui incontrassero quelli di lei; e più di una volta ci scappò anche la parolina, il ciao, il come stai. C’era ormai tra i due una tacita intesa, e, col passar dei mesi, anche qualcosa di più, che, però, arrivò alle orecchie del fratello di Assunta, giovine ringhioso, prepotente e morbosamente geloso. Il giovane carbonaio, non violento ma rude e determinato, noncurante dell’avversione di colui che già considerava futuro cognato, continuò per la sua strada quasi a mo’ di sfida. E sfida fu. I due vennero un giorno alle mani. Cosimo non mollò, e quando vide l’altro avvicinare la mano alla cintola, gli fu lestamente addosso, e lo freddò con un colpo al cuore. *** Furono dieci lunghi anni di galera, durante i quali il rude carbonaio perdette l’uso della armi e il nero del carbone. Conobbe gente nuova, e nuovo gli apparve il mondo nel quale era costretto a vivere. Ma non ostile. Don Serafino, in particolare, il padre spirituale dei carcerati, non faceva passare giorno senza portargli la sua calorosa stretta di mano e il fraterno suo sorriso. I due ebbero anche il tempo di diventare maestro e scolaro, così Cosimo imparò a leggere e a scrivere. E divorò romanzi, che do Serafino gli prestava. Col tempo arrivò anche il momento della religione, don Serafino con la sua poco invasiva discrezione e Cosimo con l’interesse del neofita. E fu poi la volta del latino, del Vangelo, dei primi rudimenti della teologia. Fu così, quasi naturalmente, che il giovine carbonaio, senza perdere la spigolosità del carattere, ma con l’atteggiamento di chi scopre nuovi e rasserenanti orizzonti, maturò l’interesse di farsi prete. Né gliel’impediva Assunta, ch’era ormai un ricordo senza rimpianti, e nulla più. L’unico prudenziale dissenso proveniva, stranamente, da don Serafino che temeva potesse trattarsi di una decisione inconsulta, e quindi fallace. Invece no. Cosimo, in una sorta di processo di identificazione con il suo padre spirituale, che gli aveva confidato fin dai primi incontri la sua origine contadina e montanara, appagato dalla scoperta di un Dio sconosciuto al servizio del quale avrebbe fatto del bene alla gente e allontanato da sé occasioni e pericoli di conflitti e di gravi errori, aveva trovato la sua strada. Egli ne era convinto, e a don Serafino toccò continuare a guidarlo verso il sacerdozio. Uscito dalla galera, completò gli studi necessari aiutato economicamente dalla Curia Vescovile e dal suo padre spirituale, ch’era ormai un monsignore chiamato al delicato incarico di segretario e vicario del Vescovo. Dopo qualche anno ancora don Cosimo il montanaro tornò a Vallenera da prete. Pochi intimi ad attenderlo, ma non i suoi nonni, ché se n’erano andati per sempre. Non vide Assunta: era emigrata anni prima i Australia con la famiglia. In attesa di superiore chiamata zappettò l’orticello della famiglia, potò alcuni alberi e riparò alcune sedie rotte. S’addentrò anche nei boschi una mattina, e rivide il giovane carbonaio che più non era, ma che gli albergava comunque dentro. Pochi giorni e arrivò la chiamata. Il Vescovo, cioè monsignor Serafino, lo aveva nominato parroco di Pietrascura. Arrivò uno speciale corriere a portargli la Bolla, e con essa l’ordine di prendere immediatamente possesso della sua Parrocchia. All’alba del giorno seguente si mise in viaggio per il villaggio dove nessuno l’aspettava. Attraversò boschi e pascoli e ruscelli; giunse a Pietrabucata nel pomeriggio. A dargli il benvenuto c’era solo Ilarione, il vecchio gobbo colpito da meningite quand’era bambino, il sacrestano, colui che suonava le campane quando nella valle c’era un prete. L’ultimo se n’era scappato nottetempo, prima di Natale, dopo aver subito un’aggressione, dentro casa. E l’altro ancora, il precedente, aveva dovuto lasciare la Parrocchia scortato dai Carabinieri, perché minacciato di morte, da alcuni mariti del villaggio, da alcuni fidanzati, da alcuni fratelli di prospere fanciulle. In non più di trenta vecchie case, senza acqua e senza gabinetto, vivevano a Pietrabucata circa trecento anime in tutto, comunque sufficienti per assicurare la presenza di numerose e floride donne, capaci di suscitare nei loro uomini la peggiore gelosia in presenza di un maschio forestiero, specie se prete non ancora vecchio e decrepito. Monsignor Serafino lo sapeva, perciò aveva scelto il suo discepolo a guidare quella parrocchia. E lo sapeva anche don Cosimo. Ed era arrivato convinto che avrebbe dovuto lottare. E forse perdere. I primi giorni trascorsero in un chiaro atteggiamento di diffidenza da parte degli uomini, e di vigilante attesa da parte del Parroco. Il clima si fece infuocato qualche mese più tardi, dopo che, chissà come, cominciò a circolare la notizia che quel prete era un avanzo di galera, che aveva ucciso un uomo per una donna con cui era stato fidanzato. Ne parlavano le donne alla fiumara, mentre lavavano i panni; ne parlavano gli uomini, mentre zappavano nei campi; ne parlavano persino i bambini, mentre con le sole mani pescavano trote nel fiume. Si diceva, in segreto, che le notizie erano certe perché le aveva portate il postino quando era sceso con la cavalla in paese a ritirare le lettere dall’ufficio postale. Ne sentì parlare anche Ilarione, che, sorridendo come un ebete, chiese a don Cosimo se era vero. Questi incassò in silenzio. Una mattina l’avvertimento, chiaro, forte, deciso: era stata scannata nella nelle notte la capra che il parroco teneva per il latte e che custodiva in un recinto attiguo alla sua casupola, e con il sangue avevano sporcato la porta della misera chiesa. Don Cosimo incassò ancora. L’indomani, domenica di Pasqua, in chiesa non mancava nessuno: i bambini accanto all’altare, le donne sedute sui banchi e sulle sedie, gli uomini stipati lateralmente e all’aperto, nel piazzale di terra battuta. Finita la Messa, prima di pronunciare “Ite, Missa est.”, don Cosimo disse ad alta voce ai presenti che aveva recepito il messaggio inviatogli con il sangue della innocente Brundina. Continuò, con voce ancor più ferma, che era vero che aveva ucciso un uomo; disse brevemente del suo pentimento, dell’espiazione, della chiamata del Signore. Aggiunse, con voce tonante, ritrovando in un nascosto angolo del suo essere il rude montanaro di un tempo, che ubbidiva solamente agli ordini del Padre, e che quindi non si sarebbe mosso da Pietrascura da vivo. “Chi è non d’accordo -concluse il celebrante con esasperata determinazione e con voce che non ammetteva repliche- si faccia avanti. Adesso, se ne ha il coraggio.” Così dicendo alzò la pianeta e il camice, e infilò tutt’e due le mani nelle tasche dei pantaloni: ne estrasse due pistole e le poggiò sull’altare, una a destra e una a sinistra. Mai silenzio fu più tombale in quella sperduta valle di briganti e d’incesti. Nessuno si mosse dal suo posto. Toccò ad Ilarione rompere l’incanto con un istintivo risuonante applauso. Un istante di esitazione e seguirono i bambini, poi le donne. Infine gli uomini, che s’accalcarono all’altare per accogliere don Cosimo tra loro, per alzarlo sulle nerborute braccia e accettarlo ufficialmente quale parroco di Pietrascura. Dove rimase sino alla fine dei suoi giorni, celebrando Messa e confessando, ma anche insegnando ai piccoli volenterosi a leggere e a scrivere, stilando scritture private di compravendita, facendo carbone e impagliando sedie per i suoi parrocchiani. Ultimo e unico vero parroco di Pietrascura, volle essere sepolto all’ombra di un millenario elce, accanto alla piccola sua chiesa, dove Cristo non è mai più risorto. |